E accade che, mentre sei a casa e rifletti su quello che faccia male dell’essere malati, del tempo che perdi, delle persone che non puoi incontrare, della corsa alle cascine che non puoi fare.
Mentre cerchi un
perché al tuo modo di vivere le emozioni e, magari, al modo per gestirle;
mentre sei i*******a nera per tutto quello che non va come vorresti, ma con una
voglia disumana di cambiare le cose.
Mentre cerchi di capire da dove iniziare per mettere ordine e per far tacere i
pensieri, riprendi in mano i quaderni
del corso di scrittura e ci trovi dentro la sua foto.
NONNO
Non può essere un caso.
Quando quel 24 Dicembre 1998 ti ha portato via, avevo 24
anni, un fidanzato, facevo l’università, ballavo; mio fratello era un judoka
che seguivo ovunque, i miei genitori sempre presenti. Odiavo la scuola e tutto
ciò che mi faceva sentire diversa, ma andavo fiera dei miei capelli rossi e mi
piacevo. Non sapevo cosa mi avrebbe riservato il futuro, nel bene e nel male,ma
avevo sogni e speranze, che non ho mai buttato via.
Quella mattina, ti sentii tossire, dovevo andare a comperare
i regali di Natale, ma rimasi in casa.
Solo qualche sera prima avevo comprato quegli stivali che
guardavo in vetrina da mesi, il tuo regalo per me. Te li portai a far vedere e
mi ricordo ancora la tua reazione.
Io, ero così orgogliosa; tu, con il tuo sorriso dispettoso:
“che ti garbano a te?”
-Si, tanto- risposi
“allora basta!”
In televisione ripassava, mi pare, la vittoria della viola
contro la Juventus, della domenica prima.
Palammo di quello, comunque, della viola ovviamente, poi ti
feci promettere che non saresti stato a letto per molto. Non eri stato bene
quel giorno.
Il giorno dopo, eri sulla tua poltrona, quella dove adesso
sono seduta io; nella tua, nella vostra camera; quella dove tu e la nonna
litigavate, quella dove venivo per sedermi sulle tue ginocchia, proprio qui
accanto alla finestra, quella da dove mi ascoltavi e sgridavi la nonna se
parlava quando parlavo io, perché non potevi sentire.
Ti piaceva come parlavo. Dicevi che parlavo bene. Me lo
disse la nonna.
Ti nascondevi dietro il frigo aperto mentre mi preparavo la colazione.
Io non sono loquace, prima di colazione, mordo.
Tu, mi guardavi negli occhi, e capivi; se era il caso di
restare, il primo argomento era quasi sempre la viola,; oppure sorridevi, mi
davi il buongiorno e mi dicevi: “torno più più tardi”.
Stavi ore a guardarmi studiare, seduto davanti a me, dalla
finestra della terrazza o da qualunque parte potessi spiarmi, per non darmi
noia, mentre a me riempivi il cuore di gioia.
La viola, nonno, te la ricordi la Uefa vista in salotto?
Io, sul divano; tu,
sulla sedia, perché dicevi che poi non ti saresti rialzato.
Che serate nonno!
Ho saputo della tua prigionia e di quello che avevi passato
durante la guerra, quasi esclusivamente dai racconti della nonna.
Tu, non amavi parlare del dolore; nella tua dignità, persino
nei giorni di radioterapia, se stavi male mentre eravamo insieme, andavi in
bagno a nasconderti per poi tornare, come se non fosse successo niente.
Ogni volta però che ti sentivi male, finivi in ospedale. Ci
abbiamo fatto il viottolo.Hahahaha.
Mi ricordo la volta dell’intervento per il pacemaker, quando
alla dottoressa che ti stava raccontando l’intervento, mi dicesti di averle
detto:
-si, la chiaccheri poco e la faccia icchè l’ha da fare-
Non ho mai saputo se fosse vero, ma conoscendoti, non ho mai
avuto motivo di dubitarne.
MI ricordo quel giorno nel reparto di medicina, chissà
perché ci eri finito, quando, mentre stavo andandoi via mi dicesti, con estrema
gentilezza:
-Pami, oh se hai fatto un c***o che pare una porta aerea-
Non mi ferirono le tue parole, avevi ragione e lo sapevo. Solo
anni dopo, ho capito che mi stavo facendo del male e ho dovuto combattere per
uscire da quella bulimia che, purtroppo, sembra essere tornata.
MI ricordo la tua vincita alla schedina, le buste sotto il
piatto per tutti, come ogni Natale, i soldi che mi desti per comprami il
costume perché avevi comprato le scarpe da calcio a Cri-
Quella mattina del 24 Dicembre 1998, dovevo andare a
comprare i regali di Natale, ma ti sentii tossire e non me la sentii di uscire
di casa.
Doveva essere un Natale speciale, ti avevo convinto a farci
le foto insieme e, invece, quelle foto, non le ho mai avute, ma ho avuto te e,
sai qual è la cosa strana nonno?
Ieri ho cominciato a leggere un libro “Il copro sa tutto”,
di una scrittrice Giapponese “racconti che affrontano il percorso dal dolore
alla guarigione; il corpo che ha paura di nuovi dolori si oppone alla
guarigione; a chiave della liberazione è nascosta nello stesso luogo dove è imprigionato
il ricordo del trauma.
Quel libro, che ho appena iniziato, mi sembrava senza senso,
fino a che non ho trovato la tua foto e ho sentito il bisogno di scrivere.
Quel 24 Dicembre è stato doloroso per me, tanto, la mia
mente non lo ha mai nascosto, come i ricordi che ho di te sono sempre stati
vivi e presenti, ma, spesso, non abbiamo tempo e modo di tirarli fuori e
guardarci attraverso e allora forse è vero che “il corpo sa tutto” ma dovremmo
essere capaci di ascoltarlo e, io, nonno, non sono stata in grado.
Non sto attraversando un periodo facile, da un po’ di tempo,
ma ho tanta voglia di trovare un modo di reagire di uscire da questo loop di
controllare la vita di chi mi sta intorno, finendo per essere invadente per
loro e assente da me.
Io non lo so se questa mania di controllo è nata quando ho
perso te; credo che tutto nasca dalla paura di perdere le persone che amo, di
vederle soffrire; sicuramente il distacco da te è stato il primo dolore forte,
immenso; probabilmente quel dolore per cui ho “abbandonare la dimensione
dell’infanzia per entrare nella maturità”.
Non potevo credere che tu ci avessi aspettati tutti, eravamo
tutti li con te e non abbiamo potuto fare nulla.
I giorni e i mesi a seguire sono stati devastanti
La nonna soffriva la tua mancanza come se le mancasse una
parte del suo corpo
Il babbo, lui lo sai, come te, nasconde
Io no, io ho versato, e verso, tutte le lacrime che ho potuto;
sono stata giorni sul divano senza alzarmi, senza studiare.
Io e la nonna decidemmo di non togliere il tuo cappotto
dall’attaccapanni e Silvestro, ogni mattina, si metteva davanti al tuo cappotto
ad aspettare che tu lo prendessi per vestirti e andare con la tua biciletta a
far colazione al circolo
Ma non lo hai più fatto.
Poi la vita è andata avanti.
Non ho mai finito l’università, ho fatto l’insegnante di
danza e lavorato nell’associazione, accanto al tuo circolo preferito, che poi è
diventata mia.
Adesso non ho più nemmeno quella, e quello che facevo, mi
manca molto.
Insegno ancora qualche ora a settimana, ma la maggior parte
del tempo la passo in ufficio, dove mi occupo di un sacco di cose; chissà se ti
piace ancora ascoltarmi parlare e come parlo
Non seguo più il calcio, la palla è diventata ovale, per
amore di un uomo, prima , e di un ragazzino, poi, che ha anche il tuo DNA, ma non è mio figlio,
perché , io, di figli non ne ho.
Non sai, o forse si, quanto mi manca sedermi sulle tue
ginocchia e saperti orgoglioso, con gli occhi che brillano dalle lacrime, come per
il primo esame all’università
“sei contenta adesso – mi dicesti- ma quanta fatica ti è
costato?”
Sai nonno, dovrei rivalutare quella fatica e perdere questi
kg di troppo che mi intrappolano la mente e che non ti piacerebbero.
Io non lo so se sia un caso che abbia trovato la tua foto,
proprio adesso; io non lo so se il corpo sa tutto, ma una cosa la so per certa
parlare con te e di te mi ha fatto trascorrere un pomeriggio “accarezzando la
mente e alleggerendo il peso della carne” insieme a te, fra i ricordi e le lacrime,
quelle belle, di una donna che sente ancora il dolore della tua assenza e
l’importanza della tua presenza, ma che non potrebbe versarle se non ti avesse
mai vissuto.
I tuoi occhi blu mi hanno dato luce e calore.
Chissà che questo non sia, anche per me, un percorso di
guarigione.
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